Qui si fa l’Europa: L’attacco della Russia

Febbraio è un mese corto, ma ricco di avvenimenti: vedremo cosa accade in Russia, in Francia, in Spagna e nel resto d’Europa. Il momento è critico: qui più che mai vedremo quale direzione prenderà l’Europa.

Care Persone tutte, bentornate a QsfE, la rubrica che mensilmente cerca di dirvi cosa sta accadendo in Europa in una versione di articolo-chimera, con il volto da blog e l’animo da newsletter. Per quanto apprezzi il piccolo spazio che separa il titolo dalle noiose notizie qui sotto, oggi sarò breve. Le questioni sono decisamente molte, e per questo darò solo una veloce – per quanto lunga – occhiata alla vicenda russo-ucraina.

Per approfondimenti, vi rimando altrove durante la lettura e ora: informatevi dove potete, e non tradite RadioIULM (ovvero: seguite In depht news, e il suo ultimo sulla crisi bellica).

QsfE viene chiuso e consegnato con giorni di anticipo (24/2). Questo vuol dire che alcuni fatti potrebbero non essere ancora accaduti al momento della scrittura e che alcune notizie siano solo riportate e non approfondite.

Russia, Ucraina, crisi

Il discorso di Putin

Seduto sulla sedia del suo ufficio, con due bandiere alle spalle (di Russia e di Impero) e una miriade di telefoni fissi a fianco, Vladimir Putin guarda fisso la telecamera. Non traspaiono emozioni, ha appreso nel corso della sua vita come fare. È con questa inquietante costruzione scenica che annuncia al mondo di aver riconosciuto come indipendenti le due filorusse Repubbliche di Donetsk e Luhansk, nella zona del Donbass.

Putin ha dichiarato di aver ufficialmente violato l’integrità di uno Stato sovrano. Il fatto che il momento sia di quelli gravi, lo si capisce dal silenzio che velocemente piomba sulle case di chi è in visione.

La firma, in diretta tv, di Putin [Ansa – fermo immagine via Avvenire]

Il discorso di Putin è stato molto efficace, nel senso che è riuscito molto efficacemente nei suoi intenti: serrare i ranghi dei suoi. Il consenso del Presidente non è solido come un tempo. La crisi economica e la violenta repressione degli avversari politici hanno lasciato uno strano sapore amaro nelle bocche dei russi. Per questo, oggi come negli anni della Crimea, Putin ha fatto quello che sa fare meglio: ricorrere allo spirito nazionalista del suo paese. Le scelte storiche non sono state, come ovvio, casuali: il continuo riferimento all’Impero Russo, la benevolenza verso Stalin, il rancore verso Lenin e i bolscevichi, suoi seguaci.

Il rancore verso Lenin.

Già, perché il politico bolscevico, uno dei massimi teorici del marxismo, è un bersaglio perfetto per la propaganda nazionalista. Lenin fu responsabile, da questa prospettiva, del tragico crollo dell’Impero, della cacciata degli zar in favore di oligarchi traditori. Traditori della patria. Il Trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) fu un, anzi il, tradimento. La rinuncia ai territori in favore di un sogno comunista, poi fallito, è il tradimento che ancora oggi lascia i segni nella geopolitica. Tra l’altro, come già detto dallo stesso Putin: nel 2018, per il centenario del Trattato, fece innalzare un monumento contro Lenin nell’annessa Crimea. Un’azione, una dichiarazione nazionalista ben precisa.

Putin ha mentito

Credo sia superfluo dire che Putin abbia distorto i fatti.

Innegabile che ci siano dei legami, ma l’autonomia dei due popoli è mostrata da ogni momento decisivo della storia: l’annessione zarista del 1793 mostra il fallimento; Lenin non creò ex novo l’Ucraina, ma diede seguito ai secolari desideri d’indipendenza; col crollo dell’URSS, più del 92% degli Ucraini votò per l’indipendenza [nota: erano ben sopra il 50% anche nel Donbass] e, oggi, la stessa percentuale vuole che rimanga indipendente.

Le bugie hanno le gambe corte, si dice. Il problema, però, è che noi europei abbiamo l’interesse e, soprattutto, le modalità per mettere al vaglio quello che il dittatore Putin dice. In Russia, purtroppo, non così semplice. Putin lo sa bene, ed è per questo che ha scelto la linea nazionalista. Il paese l’apprezza e non può neanche smentirla più di tanto. La situazione è drammatica, non riesco a dirlo altrimenti.

In Occidente

Non è una sorpresa così enorme, però. Nonostante molti si siano burlati delle previsioni americane, alla fine si sono rivelate giuste. La direttrice del National Intelligence, Avril Hines, aveva visto giusto, quando aveva convinto il presidente Joe Biden a svelare il bluff russo. Notevole storia, questa, raccontata magistralmente da Cecilia Sala.

Avril Hines

Notevoli sono le responsabilità dell’Occidente democratico: debole nelle sanzioni precedenti (perché interessato), diviso sul fronte europeo. Il fronte europeo. Si può usare una tal definizione? Esiste davvero un fronte europeo unico o esistono più fronti europei? Come più detto su queste colonne, la situazione attuale è la seconda.

L’Unione Europea non ha un unico rappresentante agli Esteri, non ha un unico rappresentante alla Difesa, non ha un’unica persona che possa interloquire a Oriente e a Occidente. Si muove non come blocco unico, ma come tante piccole frecce che guardano in punti diversi. Sono in situazioni come questa che l’aver disatteso il sogno dei padri fondatori della nostra unione continentale si fa sentire più forte. Come può pensare quest’Europa di fronteggiare la crisi? Non sarebbe forse il caso di prendere la proverbiale balla al balzo, agire con decisione e scegliere un referente momentaneo per i paesi dell’Unione, almeno quelli non semi-autoritari? Magari, questa situazione di grande crisi avrà anche dei risolti migliori. O magari no.

Un altro punto particolarmente doloroso è, senza alcun ombra di dubbio, rappresentato dai putiniani d’Europa. Nel corso degli anni, moltissimi osservatori hanno sottolineato quanto fossero dannosi i tanti (troppi) ammiccamenti al de facto dittatore russo. Oggi, tragicamente, ne stiamo vedendo le dolorose conseguenze. Ora tacciono o si ricollocano, ma è tardi, troppo tardi. Che cosa fosse Putin per la Russia e per il mondo, lo si è sempre saputo.

La Russia ha invaso l’Ucraina

Nonostante quello che molti ex-politici e politici, osservatori e intellettuali parziali, alcuni giornali hanno detto [nota: vorrei dire molte cose su molte affermazioni, ma non è il luogo e il momento], la Russia ha invaso l’Ucraina, violando l’indipendenza di un popolo. L’annuncio di Putin, l’assedio di molte città e le bombe potrebbero portare al più grande conflitto in terra europea dalla seconda guerra mondiale.

Un puntale resoconto dell’invasione russa è fatta dal liveblog de ilPost. Ahimè, il tempo è quello che è e non posso approfondire più di molto gli ultimi avvicendamenti. Mi permetto solo di dire una cosa.

Il nome della rubrica ha una seconda parte implicita, “o si muore“. Non avrei mai pensato, quando tutto questo ha preso forma, che ci si sarebbe trovati in una situazioni in cui la parola “muore” fosse a tal punto tangibile. L’Unione, oggi, rischia molto. Non perché potrebbe essere invasa, non perché potrebbe scoppiare un conflitto mondiale: quello trascende tutto, è chiaro. L’Unione, oggi, rischia molto: o ritrova la sua raison d’être o si perde per sempre.

È il momento di essere uniti, per davvero. Contro le dittature, contro l’imperialismo. Ma, ripeto ancora e ancora: se l’UE non farà un passo avanti verso un sistema più unitario, con figure precise che rappresentino tutte le nazioni, sarà sempre complesso. Sempre più complesso.

Si è pronunciata la Corte europea

Mercoledì 16 febbraio, la Curia, ovvero la Corte di giustizia dell’Unione Europea [nota: da non confondere con due organi non appartenenti all’Unione, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia e la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo], ha respinto il ricorso di Ungheria e Polonia.

Viktor Orbàn e Mateusz Morawiecki [Ansa]

L’oggetto del contendere era il nuovo meccanismo, che lega l’erogazione dei fondi europei allo Stato di Diritto. Per dirlo in poche parole: i governi semi-autoritari che aderiscono all’Unione non rispettano i valori della stessa e non avranno diritti ai fondi comunitari. Una mossa – per alcuni, poco incisiva e, per molti, molto tardiva – per allontanare le derive illiberali. La bagarre politica – che si era risolta con una dichiarazione d’intenti di 25 paesi e l’approvazione del bilancio – si è trasferita in ambito giudiziario.

Per essere più precisi, non siamo di fronte a una vera e propria bagarre. Nel dicembre ’20, dopo l’approvazione di cui sopra, la Commissione Europea ha scelto da sé di attendere la CGUE. L’obiettivo? Togliere ogni dubbio.

Molti esperti e osservatori, così come le organizzazioni internazionali, hanno spesso sottolineato gli enormi problemi democratici (non rispettare l’indipendenza della magistratura, ad esempio) in alcuni paesi membri e hanno spesso sottolineato che le misure prese dall’Unione si erano dimostrate inefficaci.

Il tempo ci dirà quali risultati otterrà questo blocco dei fondi, potenzialmente attivo nel giro di poche settimane.

Aggiornamento mensile sulla Francia

Come già detto e ridetto, l’elezioni francesi di questo aprile saranno importanti per l’intera Unione, oltre che divertenti per gli appassionati di politica. Di conseguenza, ne parliamo un po’ anche in questo mese.

Emmanuel Macron

La politica è quella cosa che ti accade mentre sei in campagna elettorale. Lo è sempre di più. In questo specifico caso, mi sto riferendo alla recenti affermazioni di Emmanuel Macron sulle centrali nucleari. Il Presidente di turno del Consiglio dell’Unione Europea ha annunciato che costruirà, a partire dal 2028, sei nuovi reattori nucleari di ultima generazione. Un investimento che si aggira attorno ai 50 MLD di euro, che si riferisce a sei centrali già esistenti e che potrebbe essere esteso, entro il 2050, a 14 reattori. L’ambizioso annuncio, arrivato poco dopo la conferma dell’inclusione del nucleare di ultima generazione tra le “sostenibili“, pare frutto di pressioni interne e delle logiche elettorali. Vedremo, anche qui, cosa accadrà.

Aspettare, vedere, pazientare e temporeggiare sono termini che hanno segnato, finora, la non-campagna elettorale dell’attuale Presidente, favorito e non ancora ufficialmente candidato.

Marine Le Pen

Spostandosi un po’ più a destra, è da segnalare il fatto che Marine Le Pen abbia sospeso la sua campagna elettorale. Il suo staff ha comunicato che tutti gli eventi della campagna elettorale verranno riprogrammati se, e solo se, la candidata del Rassemblent National riuscirà ad ottenere le 500 firme necessarie alla presentazione.

Marine Le Pen [Ansa]

Il sistema francese, infatti, impone che tutti i candidati raccolgano 500 parrainages (firme) tra parlamentari, europarlamentari, sindaci, consiglieri comunali di Parigi e Lione, e alcuni altri enti locali [qui la lista completa]. Ad uno sguardo superficiale, considerando che si parla di più di 40.000 persone, l’impresa non sembra titanica. Ad uno sguardo più accorato, invece, ci si rende conto che, siccome le firme sono pubbliche, è più che prevedibile che queste siano restie a concedersi. In più, si deve considerare che molti dei quasi 35.000 sindaci sono civici che non vogliono associarsi a nessuno, che RN ha perso molti eletti locali e che Éric Zemmour ha “rubato” un po’ nel partito.

La situazione è catastrofica“, dice il vicedirettore della campagna, Jean-Philippe Tanguy, e la data limite (4 marzo), ovvero il giorno ufficiale di deposito di candidature e firme, è vicinissima. La scelta di pubblicare un comunicato il 22 febbraio per ottenere l’attenzione della stampa durante le delicate vicende ucraine ne è una prova: tatticismo per drammatizzare e convincere gli indecisi. Un tatticismo, però, molto pericoloso: ammettere i limiti e non fare incontri con gli elettori a cinquanta giorni dal voto non fa guadagnare voti e demotiva i militanti. Forse conscia di questo, Marine Le Pen ha provato a serrare i ranghi su Twitter, denunciando la situazione come violatrice del patto repubblicano.

La crisi dei Popolari spagnoli

Il Partito Popolare sta attraversando un periodo difficile. Infatti, in seguito a un’indagine sull’acquisto di mascherine che coinvolge anche la presidente della comunità di Madrid Isabel Díaz Ayuso, nel partito si è accesa la polemica.

Isabel Díaz Ayuso [flickr – PP]

Nel mese di febbraio, sono volate moltissime accuse, una parte della dirigenza si è dimessa, il presidente Pablo Casado è vicino a consegnare le sue e il partito ha perso punti nei sondaggi. Si terrà persino un Congresso straordinario per dirimere al più presto la questione: è chiaro che una lunga tempesta interna rischierebbe di far naufragare il partito.

Gli scontri interni sono cominciati ad ottobre scorso, quando i vertici del partito, a seguito dell’indagine interna di cui sopra, avevano convocato Díaz Ayuso per chiarire il legame tra l’appalto pubblico da 1,5 MLN di euro e la Priviet Sportive. La vicenda, su cui ora sta indagando l’anticorruzione, ha aperto un altro capitolo: sembrerebbe che, in virtù di un coinvolgimento del fratello nello scandalo, il PP abbia cercato di raccogliere informazioni personali sulla famiglia Díaz Ayuso attraverso una società d’investigazione privata.

La reazione della presidente non si è fatta attendere. Il 16 febbraio, Díaz Ayuso ha accusato frontalmente il suo partito. Inoltre, ha anche ammesso il coinvolgimento del fratello, ma nel trasferimento e non nell’intermediazione. A questo è seguito uno scambio di accuse che pare abbia sfiorato la procedura disciplinare. Infatti, si dice che Casado si sia fermato a causa dell’evidente popolarità della presidente madrilena.

Per molti, il dissidio covava silenzioso sotto la coltre da diverso tempo. Casado viene visto come un leader debole, e i risultati alle regionali del 13 febbraio hanno peggiorato la situazione. Il presidente aveva provato il colpo in Castiglia e León, ma ha fallito, risultando obbligato a governare con i neofranchisti di Vox. Lo scontro con Díaz Ayuso è, ormai, un pretesto per colpire Casado.

Gli iscritti al partito sembrano avere preso le parti della presidente della comunità di Madrid. Le sue posizioni sulle restrizioni le hanno fatto guadagnare molto nella destra del paese.

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