Concime cap. 2: Il vuoto è la dimensione dell’accoglienza

Concime  è una rubrica nata in ottica dinamica e può essere l’opportunità di lasciarsi interpellare dalla situazione che ci circonda. Vuol dire prendere in considerazione le opinioni dell’altro, ascoltarle, e permettere che facciano breccia nella propria individualità.

Il secondo capitolo di questa antologia trova origine nelle parole che ho scambiato con lo scrittore Paolo Cognetti.

Il centro dell’esperienza umana si può vedere come una ricerca di equilibrio, oscillando tra esterno e interno. Ponendosi in un atteggiamento di ascolto genuino nei confronti di questi movimenti, si scopre se stessi e le opportunità racchiuse nel rapportarsi con ciò che sta intorno a ciascuno di noi.

Concime cap. 2: Il vuoto è la dimensione dell’accoglienza
Paolo Cognetti
Paolo Cognetti

Il corso della storia

Se il leopardo delle nevi vorrà manifestarsi, allora lo vedrò. Altrimenti vorrà dire che non sono pronto, allo stesso modo in cui non sono pronto a risolvere il mio koan; e in questo non-vedere sono lieto.

Il leopardo delle nevi, Peter Matthiessen

Questo è un momento in cui non si possono fare troppe previsioni e si percepisce una sensazione di indeterminatezza. L’ossessione per la pianificazione nel dettaglio degli eventi futuri e della propria vita deve fare i conti della condizione attuale. Questa ci mette in una posizione di vulnerabilità che richiede la revisione del modo di stare nella quotidianità. Si può essere lieti in questo non-vedere nonostante le incertezze e non pretendere di capire, ma essere disposti ad accogliere.

Pensando alla storia del Novecento, è anche vero che gli ultimi decenni sono stati costellati da crisi che hanno lasciato uno strascico, per poi far rientrare la situazione e il pensiero nella carreggiata. Chi è disposto a cambiare può coglierle e riconoscere che il non vedere il leopardo può essere un’occasione per imparare, che non arrivare all’obiettivo è forse ancora più importante che raggiungerlo. Però, guardando all’umanità intera, queste crisi sembrano delle deviazioni e a  mettersi in discussione è spesso la parte minoritaria della popolazione.

Ritornare dentro

Nel periodo di quarantena, le restrizioni hanno fatto della casa il fulcro delle giornate. Ciò ha portato al confronto dentro al nucleo familiare, con l’emergere dei non-detti che non è stato più possibile ignorare o nascondere. Le condizioni del lockdown hanno spinto a coltivare quelle poche relazioni importanti che è stato possibile mantenere nella forzata immobilità.

Si è trattato anche di un momento per la cura di se stessi. La situazione di lockdown ricorda la pratica dello yoga, che fondamentalmente è l’autoimposizione di un confine. Ti muovi su un tappeto piccolissimo, grande come il tuo corpo, e stai in questa prigione esplorandone le possibilità. Non ti puoi muovere da lì eppure scopri che là dentro, nel corpo, si possono intraprendere infiniti viaggi. Anche praticando yoga per anni continui a scoprire cose nuove di te stesso e della tua fisicità. Tolta la ricerca di distrazioni e progetti proiettata verso l’esterno, della vita rimane quello che c’è dentro. E quello che c’è dentro sei tu.

Concime cap. 2: Il vuoto è la dimensione dell’accoglienza

Fare spazio

Per chi ha sempre vissuto in città, l’esperienza del lockdown è stata un’occasione per riscoprire e abitare il silenzio. La condizione cittadina è inscindibile dalla sovrastimolazione e il silenzio è percepito come un imbarazzo. Deve sempre essere riempito con qualcos’altro, non si può lasciare del vuoto. La filosofia buddhista parla tanto del vuoto e di come starci dentro senza l’ansia di colmarlo.

C’è un grande desiderio di pienezza. Però, se io sono pieno, come posso lasciare uno spazio per le altre persone? Si può vedere il vuoto come la dimensione dell’accoglienza. Nel pieno non c’è spazio per l’ascolto, hai già tutta la tua casa piena di cose, tutta la tua vita piena. Invece il vuoto è una dimensione molto più aperta verso quello che può succedere, disponibile all’incontro, meno sicura di se stessa e sicuramente più fertile. Ciò che all’inizio è solitudine e silenzio può diventare uno spazio di dialogo e relazione.

Ritmi in ricerca

Stare con gli altri è faticoso. Vuol dire cercare di sintonizzarsi al ritmo dell’altro. Siamo così diversi e per riuscire a parlare tra di noi, a trovare un linguaggio comune, dobbiamo tenere lo stesso passo. Anche pensando in concreto al camminare in montagna, non è facile seguire la stessa andatura.

Il camminare nella vita è un percorso solitario in cui ci sono date delle occasioni d’incontro. Si può verificare un conflitto tra una solitudine in cui si sta bene e il desiderio di relazione. Non ci sono soluzioni facili o scontate. A stare insieme ci si può però esercitare, anche se la fatica è grande. Si tratta di tenere questa dimensione in allenamento, come un muscolo.

La dimensione dell’incontro e della relazione è la parte più bella della vita. È come una grande festa che sta fuori, mentre dentro c’è l’io. L’essenza della vita può essere concepita come solitaria e quella festa difficilmente accessibile, soprattutto se la propria vocazione abita all’interno, tra i pensieri. C’è però una felicità che si può toccare con mano nell’aprire la porta a chi arriva e accogliere lo straniero che ci si trova di fronte.

Concime torna tra due settimane con un nuovo capitolo

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