Concime cap. 12: L’attesa in cui stare

Ogni cambiamento genera uno strappo. Ciò che rimane è una ferita. In fondo, siamo esseri abitudinari. A differenza di chi si fa roccia inscalfibile, resiliente, colui che è disposto a cambiare accetta di morire ogni volta. Il dolore e lo sterco che la vita offre devono essere affrontati. Queste sono le premesse da cui è nato E vissero feriti e contenti, l’ultimo album di Ghemon. Parlandone insieme abbiamo condiviso ciò che la pandemia ha portato nelle nostre quotidianità e i segni che sta lasciando sulle persone.

Ghemon
E vissero feriti e contenti
Ghemon

Perché la merda diventi fertile è necessario del tempo. Se non le si dà un nome diventa un’entità immensa che sovrasta l’individuo. In tanti la mettono sotto il tappeto per non vederla, evitando di pensarci. Così, però, è inevitabile che ciò che è stato nascosto prima o poi torni a chiedere il conto. Questo sforzo di passare avanti rifiuta l’evoluzione e le lezioni che si potrebbero trarre.

La scrittura è un atto di nominazione. Le parole danno una forma alle cose, allo sterco, che dall’essere un indefinito schiacciante è ridimensionato al suo giusto peso. Tanto è difficile, se non pericoloso, identificarlo e definirlo subito, allo stesso modo non sempre è possibile raccontare qualcosa mentre la si sta vivendo. Deve essere lasciata sedimentare, esige un’attesa.

La discussione necessaria

Prima della pandemia tutto era in costante crescita e a gran velocità. Per mesi siamo stati costretti a fermarci. Siamo ora in un momento favorevole per chiederci dove stiamo andando, quanto sia sostenibile questo passo incessante e di chi ci stiamo dimenticando. Non è stata tratta una lezione dalla crisi pandemica, se non intimamente e nella sfera individuale. Anzi, ci si sente in credito con il mondo perché il destino ci ha sottratto qualcosa. Lo rivogliamo con gli interessi, usando qualsiasi mezzo per ottenerlo.

Non si è dato il via a una discussione sulla sostenibilità delle nostre abitudini. La pandemia passerà, ma se questi temi non saranno discussi con la prossima crisi andremo incontro agli stessi problemi.

Il dibattito che il sistema dell’informazione ha veicolato si è focalizzato sul virus. Noi, però, non siamo solo corpi che si ammalano. L’arte, i racconti e i luoghi della cultura sono degli strumenti per elaborare e metabolizzare ciò che siamo e che ci accade. È lì che può avvenire una mediazione e si può dare una forma alle emozioni, ai sentimenti e alle esperienze. Tuttavia questi posti, queste professioni e questi sistemi non sono stati preservati.

La cultura è lo spazio in cui la gente si incontra e scopre una comunione intellettuale oltre che fisica. Il confronto, la discussione e i discorsi che origina sono lasciati al margine, se ne parla oggi come se si trattasse di un bene di lusso e non di una necessità primaria. Se ci arricchissimo di più culturalmente saremmo più intelligenti, anche in quanto animali sociali, e quindi ci sarebbero molto meno persone lasciate indietro.

Dentro e oltre il confine

La morte, argomento tabù, con la pandemia è entrata nella quotidianità. In un’era in cui è diffusa l’idea di dover abbattere qualsiasi barriera, ci siamo resi conto di avere dei limiti. È vero che siamo fatti per sognare in grande, ma la libertà è anche fare scelte radicali, dei sigilli da cui non si torna indietro. Se fossimo illimitati sarebbe impossibile trovare un punto di contatto. Riscoprire il confine e considerarlo un’occasione di incontro oltre che una gabbia è importante in un momento di confusione come quello attuale.

Ci sono dei vincoli legati a ciò che si ha intorno: dove si vive, le proprie origini, il carattere, l’indole. Sono delle condizioni che non si possono scegliere e questo a volte provoca frustrazione. Tuttavia, è dentro a quei limiti che si può sprigionare la creatività. Questi, oltre a delimitare le possibilità, mettono in evidenza ciò che si è in grado di fare. L’arte di arrangiarsi e dell’ingegno la si impara dalle circostanze che ci è dato di vivere. A volte questo conduce a sperimentare una bellezza inaspettata.

Il limite è anche uno strumento per individuare delle motivazioni che portino al di là delle certezze consolidate. Può essere visto come una sfida personale, ponendosi volta per volta nuovi obiettivi e aree sconosciute da esplorare. È un processo che, come l’apprendimento e l’evoluzione personale, non ha una fine. Se, però, si guarda solo al prossimo paletto da superare, si rischia di non riuscire a riconoscere e festeggiare i traguardi raggiunti. Allora, quando si potrà gustare la soddisfazione?

Stare

Fare progetti e porsi degli obiettivi non è di per sé qualcosa di negativo. È la rigidità mentale del far quadrare necessariamente ogni cosa che priva la progettualità della sua forza generativa. Come un treno in corsa, ci si spinge alla massima velocità verso la meta. Se si guarda dal finestrino, il paesaggio è sfuocato, non si vede nulla. Si perde tutto ciò che sta intorno a quella corsa a perdifiato. Una volta arrivati a destinazione, il luogo faticosamente raggiunto può anche essere molto diverso da quello che ci si aspettava. Il risultato non sempre corrisponde alla soluzione desiderata dalle nostre pianificazioni.

In tempo di pandemia si possono sì fare dei programmi ad ampio respiro, ma concretamente non si sa quali saranno le condizioni di settimana in settimana. Questo momento storico mette in crisi i tentativi di rigida programmazione. Senza edulcorare la situazione odierna o giustificare l’irresponsabilità di alcuni comportamenti e scelte politiche, ci si presenta un’occasione: non comprendere, ma accogliere.

L’eccesso di razionalizzazione è deleterio. Porta a pensare che il virus debba essere stato creato per forza in qualche laboratorio. Possiamo invece allenarci per far sì che l’ansia del controllo su ogni aspetto della vita si attenui e non delimiti la possibilità di attingere dall’esterno e dall’inaspettato.

Ognuno è portatore di una moltitudine di domande. Forse arriverà il momento in cui ciò che è incomprensibile troverà una spiegazione. Nel frattempo si possono accogliere le sue ripercussioni, senza rifiutarle automaticamente. La disponibilità a raccogliere anche ciò che non si capisce fa rivalutare l’esperienza dell’attesa, di solito associata a una sensazione di frustrazione. Non si ha un riscontro o un ritorno immediato. Aspettare vuol dire stare in quella cosa, anche se non la si comprende completamente, e viverla. È come andare a correre: si è stanchi, per arrivare a casa mancano ancora chilometri e non si ha nulla con sé se non la tenacia di andare fino in fondo. La volontà di starci.

Uno spazio ospitale

Il lockdown ci ha privato dei luoghi di aggregazione, che a volte sono percepiti come casa molto più delle abitazioni in cui siamo stati chiusi. Oltre a quello fisico delle mura casalinghe, gli unici luoghi in cui si poteva stare erano quelli virtuali. Tuttavia si tratta di ambienti saturi, già pieni, in cui il rumore rende impraticabile l’attitudine all’ascolto e all’attesa. Al contrario, il silenzio è uno spazio ospitale.

Durante i primi mesi di quarantena le strade erano deserte. Ascoltando il silenzio, ci si accorge che non è mai una totale assenza di suono. Abitare questo momento, anche con fatica, sta anche nel riconoscimento dei dettagli e delle piccolezze. Si sente il fruscio delle foglie e ne si può godere.

Concime torna tra due settimane con un nuovo capitolo

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