L’impeccabile gioco delle alternanze: la recensione di “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”

Stuprata mentre veniva uccisa e ancora nessun arresto: come mai, sceriffo Willoughby? . A partire da qui Tre manifesti a Ebbing, Missouri segue passo per passo la straziante volontà di una madre di assicurare giustizia alla propria figlia. Che, in un apparentemente ordinario pomeriggio è uscita di casa, senza esserci però più tornata. Una chiarezza dell’accaduto che, ancora nel ventunesimo secolo, viene messa al secondo posto soltanto dopo sterili atti razziali da parte dell’oziosa banda di poliziotti della più che stereotipica contea di Ebbing.

McDormand (lo sceriffo) e Harrelson (la madre di Angela) in una sequenza del film

E’ a questo punto che Mildred Hayes (interpretata da Francis McDormand) trasforma il più grande incubo di ogni madre in una sfrontata ed insolita battaglia per la giustizia, occupando lo spazio di tre grandi manifesti con insegne volutamente provocatorie nei confronti del capo della polizia, William Willoughby  (Woody Harrelson).

Comincia così uno sviluppo narrativo dai toni perennemente accesi. Nonostante la drammaticità della situazione, il fluire del film non rinuncia mai ad un inaspettato ma pertinente utilizzo delle alternanze, ora tragiche, ora comiche. Lo spettatore, che non può proprio astenersi dal ridere in un momento e dal piangere in quello immediatamente successivo, viene così trascinato in un susseguirsi mai casuale di avvenimenti. Dove ogni singolo, specifico gesto, azione o parola comporta sempre una reazione uguale, o contraria.

Sembra quasi, allora, che ogni personaggio agisca matematicamente per punire o per essere punito, per perdonare o per essere perdonato, grazie ad una sceneggiatura che somiglia più ad un dramma Shakespeariano, in linea con il passato teatrale del regista, McDonagh.

Nel personaggio interpretato da Sam Rockwell si concentra il gioco delle alternanze che caratterizza il film

Ed è sempre secondo questa abile tecnica di scrittura, in cui ogni evento ne implica incessantemente un altro, che i personaggi crescono, grazie ad inaspettate metamorfosi, tra cui su tutte quella del folle e razzista agente Jason Dixon (Sam Rockwell).

Sopravvissuto infatti ad un incendio, causato a sua volta da una sofisticatissima concatenazione di eventi, dismette presto i panni da poliziotto incapace e negligente. Una figura, tra l’altro, non così lontana dal Travis di Taxi Driver. Diventa insperatamente, Dixon, il più avido ricercatore di verità sull’impunito stupro di Angela Hayes.

In un film così carico di simbolismi struggenti si apre però lo spiraglio per un finale inatteso. In cui l’evoluzione caratteriale dell’oramai integerrimo agente Dixon sembra essere l’unica circostanza giunta ad un punto cieco. L’unico vero probabile assassino, di fatti, viene creduto nel suo alibi e ritenuto innocente. Viene a mancare, nell’ottica spettatoriale, esattamente l’ultimo tassello di un puzzle architettato con una maestria senza eguali.

Il sospetto che il regista comincia a far trasparire è che, probabilmente, non sia la tradizionale punizione del presunto peccatore la vera morale del film. Sembra al contrario che la morte di Angela Hayes abbia inconsciamente originato, sia nei personaggi che negli spettatori in sala, qualcosa di ben più grande.

Un’esigenza di verità, ovvero, che vinca l’ottusa incapacità di una popolazione cieca, razzista e che superi di gran lunga un singolo e specifico caso di violenza.

Apprezzato dalla critica e dal pubblico, vincitore dei più svariati premi, Tre Manifesti ha funzionato come previsto. E’ stata, la pellicola, capace di scorrere tra  continui ed acuti riferimenti, per una tanto capace recitazione e per una sceneggiatura precisa, impeccabile anche allo sguardo più critico.

Un film che pertanto non poteva concludersi in maniera consueta. Ma, al contrario, un film che affida a ciascuno di noi il compito, o soprattutto il desiderio, di scrivere il suo atto finale.

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