Tutti i guai di Facebook (e nostri). Ascolta il prof. Andrea Miconi, ospite a Zizzania

Uno scandalo più apparente che reale. Eppure la platea di Facebook è stata scossa dal caso Cambridge Analytica. O, almeno, a sondare gli animi espressi attraverso i click. Perché i rapporti del social network con la società britannica, divenuta celebre per aver analizzato i dati e tentato di influenzare le scelte elettorali di 87 milioni di utenti, ha creato non poco imbarazzo a Mark Zuckerberg.

The Economist sintetizza così, in copertina, il caso Facebook

Ed il fondatore della comunità online che conta di due miliardi di profili ha trascorso delle settimane critiche, almeno per la difesa della sua reputazione. Attaccato dagli utenti, il CEO di Facebook è presto finito nella lente di ingrandimento dei mercati finanziari e del Congresso USA, che lo ha convocato a riferire proprio davanti i senatori.

Ma quali sono le implicazioni del caso Facebook, se ce ne sono? Lo abbiamo chiesto al prof. Andrea Miconi, docente di Sociologia dei Media dell’Università IULM ed esperto del mondo dei social network.

Ospite nell’ultima puntata di Zizzania (giù il podcast da ascoltare), lo studioso dei media digitali e della loro funzione nella sfera sociale ha risposto alle domande di Achille Cignani ed Enzo Cartaregia sui temi di privacy, profilazione e valore dei dati nell’economia. Concludendo che, probabilmente, non esiste nessuno scandalo, in un “viaggio nei fatti, con occhi inconsueti” che, senza reticenze, va dritto alle luce scomode verità che sfuggono al dibattito pubblico. Da scoprire nell’interessante analisi del docente IULM.

 

Zizzania, puntata del 10 maggio. Ospite Andrea Miconi. Tutti i podcast sono disponibili cliccando QUI

Il testo di seguito è un estratto parziale dell’intervista al prof. Andrea Miconi, da riascoltare integralemente al link: https://radioiulm.it/album/zizzania

Tutti i guai di Facebook (e nostri) hanno a che fare con la gestione della privacy. Già prima che se ne cominciasse a parlare, nella storia, i suoi confini erano in continua evoluzione. Ma se dovesse definire la privacy, allo stato attuale, come lo ?

É una domanda che è diventata molto difficile, perché di base la privacy dovrebbe essere il diritto di ciascuno di controllare le informazioni personali che lo riguardano. La vera domanda, oggi, è : siamo sicuri di essere veramente in grado di controllare i nostri dati? Se l’unico modo per controllare i dati è non avere un account su Facebook, mi mette un po’ in difficoltà rispondere che ciascuno è libero di gestire la propria privacy, perché è difficile immaginare un mondo in cui uno possa avere un lavoro con gli altri, con il lavoro, con la cultura del proprio tempo, senza stare su Facebook.

Le rigiriamo una domanda che molti si sono fatti quando è scoppiato lo scandalo di Cambridge Analytica: ma perché ci stupiamo? Non sapevamo già che vediamo esattamente quello che Facebook vuole farci vedere e che noi, in fondo, vorremmo?

Sono assolutamente d’accordo, è una domanda intelligente. La mia vera riflessione sul caso Cambridge Analytica è proprio il fatto che non c’è nessun caso. Non è successo nulla che non fosse già a conoscenza di tutti. Allora viene quasi da chiedersi se il problema sia che qualcuno ha rotto quella specie di incantesimo per il quale noi sappiamo che è così ma che speriamo che nessuno ci venga a dire che lo è. Ci stiamo tutti dentro e facciamo finta di nulla. Facebook non ruba i dati di nessuno. Prende i dati di chi si crea un account e accetta una serie di condizioni, parti delle quali è il fatto che i dati che si mettono su Facebook diventano poi proprietà della società con sede legale a Menlo Park.

Cambridge Analytica avrebbe raccolto dei dati attraverso Facebook per influenzare potenziali elettori di Donald Trump

Non è che c’è tutto questo clamore deriva solo soltanto dal fatto che è stata coinvolta la politica?

Secondo me sì. Come al solito, fa un’enorme, un’immensa paura sapere che l’NSA o una società che fa profilazione per campagne elettorali, controlli i dati. Non fa paura in alcun modo la piena consapevolezza che chi vende uno yogurt o delle scarpe da trekking fa esattamente la stessa cosa per 24 ore al giorno.

Qualcuno ha provato a lanciare il #DeleteFacebook, cavalcando al meglio l’onda di indignazione verso Zuckerberg. Ma è possibile, per interi pezzi del mondo sociale, uscire da una piattaforma?

Secondo me no. Ci provò un network di attivisti che operava tra Berlino ed Amsterdam, lanciando un evento che non casualmente si chiamava “Quit Facebook Day”. Non ha funzionato e non credo possa funzionare. In fin dei conti, tutto insiste sullo stesso schema: non è obbligatorio usare Facebook, ma ci sono regole del mondo sociale per le quali 2 miliardi di persone sono lì. E, ad essere realisti, è difficile pensare che qualcuno ne possa uscire senza tenere conto delle consuetudini del proprio mondo sociale, della possibilità di perdere contatto con lo spirito del proprio tempo.

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L’intervento della Commissione Europea ha provocato, a cascata, l’aggiornamento della policy sui dati di praticamente tutte le piattaforme social. Cambia qualcosa, quando scendono in campo i governi?

La sensazione di queste varie notifiche a cui faceva riferimento è la stessa che avevo al tempo della legge sui “cookies”. Che oltre a dover sopportare i cookies, devi anche resistere alla scritta che ti si apre per chiederti se sei anche d’accordo. Un punto  è chiaro: qualsiasi cosa ci sia scritta su questi banner, tutti la accetteranno come se nulla fosse. Penso che sia obiettivamente troppo tardi. Tecnicamente qualcosa è sicuramente migliorabile e la mia posizione personale è che una volta ammesso il fatto che i dati diventano di qualcun altro, qualsiasi piccolo aggiustamento, modifica, richiesta di consenso penso sia una questione di quello che banalmente si chiama crisis management. In un momento di crisi reputazionale devo far qualcosa per dimostrare che ho ancora il controllo della situazione.

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