Federico Buffa in Iulm: “Non innamoratevi di voi”

Federico Buffa, giornalista, telecronista sportivo e scrittore italiano viene oggettivamente da un mondo diverso da quello di oggi. Scrive a mano i suoi appunti, possibilmente in bella grafia perché questo lo aiuta a ricordare meglio, il suo telefono è come lui “vecchio stampo” e l’amore per la divulgazione la trasmette semplicemente parlando. Il suo modo di raccontare storie di ambiti diversi è autentico, innovativo. Tramite questa intervista Buffa tocca svariati aspetti della narrazione nell’era moderna.

Lei nasce come avvocato ma nel corso della sua vita professionale ha raccontato storie in teatro, in televisione e attraverso la scrittura di articoli. Come cambia la modalità di scrittura e l’approccio allo storytelling per adattarlo a mezzi diversi?

Non abbiamo così tanto controllo su quello che ci succede.  Nella mia vita, per esempio, non mi è mai capitato di fare una cosa che volevo fare. Mi è sempre stato chiesto. E poi, improvvisamente, perché la mia vita è scritta da uno sceneggiatore, ho iniziato a commentare su Telepiù. Il direttore decide che io sono la persona più adeguata per provare a fare narrazioni sportive dilatabili in un mondo che consuma sempre più velocemente. Per lui questa modalità di racconto è innovativa, infatti se si comparano le narrazioni degli anni 70 con quelle attuali, non sembrano neanche commentare le stesse storie. 

In una televisione così attenta all’immagine, il mio compito era quello di raccontare  un mondo che rallentasse i battiti cardiaci degli spettatori e che comprendesse la possibilità, oggi pressoché impossibile, di mostrare immagini umane. Una modalità di racconto controintuitiva.  

Una mattina mi mettono in uno studio e improvviso l’infanzia di Diego Maradona. È andata bene. La settimana dopo mi chiedono di raccontare altro.  L’importante è decidere di toccare un argomento sensibile, per esempio un periodo storico legato alla vita del personaggio che si vuole descrivere. Devi prendere un contesto dove sai di essere ascoltato da un pubblico a cui quella storia interessa. Se non si mettono pause mentre si parla, per esempio, non si dà allo spettatore la possibilità di assorbire e godere ciò che sta vedendo o udendo.

Così ho iniziato a raccontare una storia bellissima, quella di Arnold Weiss. Allenatore ungherese di nascita ebraica che allena la squadra di calcio del Bologna in una maniera straordinaria. La sua vita sarà condizionata di fatto dalle leggi fasciste e lui, nonostante avesse la possibilità di scappare e salvarsi, deciderà di rimanere a Bologna perché la passione per lo sport era più forte. E questo è un punto cardine.

Da lì mi hanno chiesto se potevo raccontare i mondiali e l’ho fatto. Un regista milanese mi ha notato e mi ha chiesto di raccontare in teatro quello che raccontavo in tv. Io non ho mai chiesto nulla. È la vita che mi ha portato dove sono ora. 

Quando si racconta una storia, esistono tecniche per ricreare immagini nella mente di chi le ascolta?

Dare al lettore una pausa durante la narrazione. Quel momento sarà fondamentale. Ti accorgi che questa tecnica comunicativa da il tempo di guardare e creare un’immagine nella testa di chi legge o ascolta. Unire e coinvolgere due sensi attraverso le parole non è semplice. Siamo più abituati a leggere le immagini che a parlare. Sicuramente tu devi essere accattivante in quello che narri. Devi intercettare un pubblico che appartiene al consumo rapido. Lavori su blocchi da 5 minuti, ti guadagni l’attenzione blocco per blocco. Per convincere le persone ad ascoltarti e rimanere ad ascoltarti devi utilizzare un linguaggio preciso.

Qual è il valore aggiunto al giorno d’oggi nella narrazione, in cui l’informazione deve essere sempre più rapida e sempre più sintetica? 

Il centro della narrazione è sempre il soggetto. Quelle diversioni e divagazioni funzionali nelle tue storie funzionano sia nel parlato che nello scritto. L’importante, sia quando scrivete, che quando parlate, è che il grado di separazione dalla storia sia un grado solo. Perché se voi avete due gradi di separazione, il tempo che l’ascoltatore o lettore ci mette a rientrare al centro della narrazione è un po’ lungo e quindi perde l’attenzione.

Nei social non puoi mai uscire dal centro della storia. Negli altri mezzi, l’ascoltatore è attratto dall’idea di saperne di più. Se invece gli interessa soltanto il mero dato, allora torna sulla narrazione centrale. Quello che devi fare, nella mia visione, è permettere alle tue digressioni funzionali di ampliare il centro del discorso e renderlo oggettivamente più attraente.

Qual è la sua preparazione per scrivere le storie? 

Primo, l’accesso alle fonti. Secondo, la credibilità del racconto. Terzo, quanto ti è concesso di interpretare della fonte. Sono tre punti base. Nella mia visione leggi cinque volte più di quello che ti serve. L’importante è mettere da parte l’orgoglio. Bisogna entrare nella dimensione di chi ascolta o legge. Prendete il vostro ego e fateci una palla. Questo è l’insegnamento fondamentale.

Non innamoratevi di voi. Di quello che scrivete, di quello che pensate, del vostro originario. No. Pensate a chi vi leggerà. Devi cercare molto di più di quello di cui hai bisogno. Io scrivo a mano e in bella grafia possibilmente i miei appunti, perché la scrittura ha il respiro del pensiero. Il respiro del pensiero è la cosa più importante. Non è che si può avere sempre connessione e accingere a quello che si scrive. Bisogna ricordare e allenare la memoria. Allenare la memoria sembra un gioco d’altri tempi. Fuori dal tempo, ma ogni esercizio mnemonico in realtà aiuta la nostra vita. Il mondo contemporaneo sta annullando la memoria, perché è tutta concentrata nei telefoni. E secondo me questo è un errore proprio dal punto di vista neurologico.

Allenate la vostra memoria indipendentemente dalla cosa che avete in mano, perché la vostra memoria è un patrimonio.  Io prendo appunti tutti i giorni di tutto quello che leggo, sempre. Continuativamente. Mediamente sono 30 note ogni giorno. Quando sento qualcosa che mi colpisce la scrivo e la elaboro. Fidatevi. Sono più importanti i pensieri altrui che i vostri. Se noi separiamo chi siamo da quello che potremmo sapere o avremmo quasi dovuto sapere, commettiamo un peccato contro noi stessi.

Come si fa quando si parla di grandi campioni a scegliere cosa narrare. Quali sono gli elementi per cui vale la pena raccontare una storia? 

I grandi campioni possono essere personaggi non soltanto della contemporaneità, ma soprattutto della non-contemporaneità. La cosa più importante è sapere dove è nato il campione e sapere in che periodo storico si trova.  Per esempio Maradona nasce nella parte più povera dell’Argentina, ovvero nelle baraccopoli che di fatto non hanno né i servizi igienici né, spesso, l’acqua corrente.  Diego riceve in omaggio da suo zio un pallone.  Già a 3 anni palleggiava e da lì ha sempre palleggiato. Una sera, lo zio non sente più quel suono pam, pam, perfettamente ritmato. È successo qualcosa a Diego. Esce e si accorge che è caduto nel pozzo nero, ovvero nella cloaca. Gli getta qualche cosa e lo tira su. Diego esce.

Da un punto di vista storico, che cosa vuoi legare a questo episodio? Devi fare una cosa centrale. Scegli una metafora. Maradona comprende che non importa quanto giù andrai, l’importante è sempre rialzarsi. Prendi un episodio della sua vita, lo fai diventare metaforico della sua esistenza e lo segui. Quell’episodio non può succedere se lui non crescesse in quell’ambiente. Quindi tu prendi Diego lo metti nel contesto sociale, segui l’episodio della sua vita e cerchi di tenere un filo che tiene tutto assieme. Tutto parte dall’identità di chi vuoi raccontare. 

Si è mai trovato in difficoltà nel trattare una storia particolare? 

Tante volte. È un problema etico. Io non posso raccontare se il diretto interessato non mi autorizza a farlo. Ci sono casi in cui l’emozione è talmente alta che non serve per forza un consenso, il silenzio è assenso.  Devi però chiedere. Ci sono casi in cui il soggetto può prestarsi a troppe interpretazioni. Devi decidere cosa approfondire e cosa no. L’olocausto, per esempio, è uno di quei casi in cui devi stare attento. Perché la discriminazione ha un valore linguistico, una volta questo non era un problema. Oggi devi stare attento alle parole che usi.  Ma la realtà qual è? Che soltanto quando c’è un contesto pubblico, quando si scrive e quando si parla in pubblico si usa questo sistema. Quindi ci sono due lingue: quella politicamente corretta e quella parlata nel privato. 

L’influenza degli Stati Uniti ha avuto un ruolo nella sua formazione professionale?

In Italia nessuno ti insegna nulla. Negli Stati Uniti il giornalismo è trattato più seriamente. C’è una scuola di giornalismo che ti insegna come si fa questo mestiere.  Quindi se hai la fortuna di poter accedere al giornalismo angolsassone, vedi, ascolti, leggi un altro modo di raccontare, che io penso sia più adatto.

Come è cambiato il suo modo di raccontare attraverso temi diversi?

C’è un particolare da cui bisogna partire. Per esempio, gli unici che conoscono le ultime 48 ore di Lucio Dalla sono Marco Alemanno e il mio tour manager Luca. È quindi oggettivamente interessante raccontare quello che solo due persone possono sapere. Penso che raccontare quei momenti che hanno segnato la vita di un grande della musica sia unico.  Questa storia non ha a che fare con la conoscenza musicale ma con caratteristiche particolari che spiegano tanti perchè della vita di Lucio Dalla.

Perché siamo così tanto interessati alle storie degli altri, tanto da raccontarle? 

Secondo la mia interpretazione le storie nascono nel momento in cui l’essere umano si rende conto di poter immaginare. Da lì fino a quando morirà l’essere umano racconterà storie. Cambieranno i parametri narrativi ma le storie rimarrano sempre finchè ci sarà una storia che varrà la pena raccontare. 

Immagine in evidenza: Unical

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