Last but not least: Trilogia della città di K.

Agota Kristof, autrice della Trilogia della città di K., nasce in Ungheria. Nell’abbandonare la vita di campagna per il collegio, la spensieratezza della scrittrice si dissipa per fare spazio alla solitudine e al vuoto.

La separazione dalla famiglia porta la giovane Agota a un’unica strada: scrivere. Riempire segretamente delle pagine che sarebbero state solo sue e che nessun altro avrebbe letto.

Nel 1956 decide abbandonare l’Ungheria a seguito della violenta repressione sovietica da parte dell’Armata Rossa. Emigrata con il marito e la piccola figlia in Svizzera, la scrittrice dovrà ricostruire la sua vita lavorando da operaia in un paese di cui non conosce nemmeno la lingua.

La solitudine, il dolore e l’esperienza della guerra si riversano all’interno delle sue narrazioni. La penna di Agota Kristof genera ambienti asfittici dalla speranza negata, rappresentando la crudezza dell’esistenza senza concedere uno spiraglio di luce.

Una fiaba nera

“Ogni umano è nato per scrivere un libro, e per nient’altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto.”

In “Trilogia della città di K.” tutti scrivono. Compaiono quaderni, libri, una raccolta di poesie. Il romanzo stesso si presenta come un insieme inorganico, cucito in maniera grossolana, in cui gli stacchi da un libro della trilogia all’altro sono lampanti.

Lo stile muta da frasi brevi e secche, tanto taglienti quanto spettrali, fino a farsi sempre più articolato. Così la prosa evolve, accompagnando i due protagonisti dall’infanzia all’età adulta.

Abbandonati dalla madre, i gemelli Lucas e Claus vanno a vivere dalla nonna, da tutti apostrofata come “strega”. Atemporalità e reticenza nel nominare i luoghi fanno aleggiare la guerra narrata in una dimensione mitica, di un fiabesco cupo. Alcuni dettagli permettono di intuire che lo scenario possa essere un paese dell’est Europa, che tuttavia non si palesa mai.

“Trilogia della città di K.” racconta della sopravvivenza dei due gemelli alla violenza a cui sono esposti tutti i giorni, in un posto dove chi unisce le mani per dire una preghiera riesce solo a emettere imprecazioni.

In un rapporto simbiotico segnato dall’uso della prima persona plurale, i due si infliggono pene come botte e digiuno per temprarsi a tutto ciò che potrebbe provocare loro sofferenza. Neanche alla fine della guerra riesce ad emergere la speranza: la moneta non ha più valore, i Liberatori impongono le loro usanze, il paese viene circondato con filo spinato.

I gemelli, crescendo, prendono sempre più consapevolezza del mondo che li circonda. Una realtà distorta.

Inquietudine e violenza

Trilogia della città di K. è una macchina trituratrice, divora i sentimenti buoni e restituisce angoscia. È disturbante, agghiacciante, lascia turbati.

Sul confine tra realtà e finzione, nel romanzo regna l’allucinazione. La verità, impalpabile, viene celata e manipolata, sorprendendo il lettore in una tensione continua tra menzogna e fattualità.

La lettura non è piacevole, al suo termine si rimane con un peso sullo stomaco.

Chi si sentisse pronto a penetrare nel dolore della scrittrice, può bussare alle porte della città di K. Entrate, però, in punta di piedi, siate cauti. Una mina potrebbe scoppiare sotto di voi.

Per conoscere meglio Agota Kristof e la sua opera QUI è possibile trovare l’intervista di Michele De Mieri all’autrice.

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